Archive for gennaio 2007

“NON LASCIAMO SPARIRE FOUED CHERIF”

gennaio 27, 2007

La mattina del 4 gennaio 2007 la Digos di Milano ha prelevato Cherif Foued dal suo posto di lavoro e lo ha portato presso la Questura dove gli è stato notificato un decreto di espulsione. A motivo dell’espulsione, in breve, il sospetto che Foued sia uno spalleggiatore di terroristi.

La notte del 4 gennaio, Cherif Foued è stato imbarcato per la Tunisia senza permettergli di contattare un avvocato, senza potersi difendere, senza sapere con esattezza i capi di imputazione e soprattutto subendo la violenza morale di venire strappato ai suoi affetti.

Foued è stato rinchiuso dal 5 al 15 gennaio nel dipartimento del Ministero degli Interni tunisino, con annesso carcere di isolamento, il 16 è stato portato in un carcere civile sotto la giurisdizione militare, e solo il 18 gennaio la famiglia ha avuto notizie su dove si trovava Foued.

Cherif Foued è incensurato, non è mai stato indagato dall’Autorità Giudiziaria italiana o straniera.

La sua unica “colpa” è stata di essere stato identificato, durante una perquisizione, nell’appartamento di alcuni cittadini tunisini indagati per presunte attività terroristiche e peraltro assolti dalla Corte di Assise di Milano.

Foued è stato espulso in Tunisia illegittimamente, creando un precedente gravissimo per la nostra democrazia e per il principio del diritto alla Difesa.
Non si può stare inermi a guardare quando l’antiterrorismo, che vorrebbe colpire il terrorismo, diviene abuso; quando vengono negati i diritti a coloro che sono stati accusati di essere i nemici ma, come esseri umani, come imputati, hanno diritto a un avvocato, a un processo, a un giudice, diritto a un trattamento dignitoso e umano. Invece si ritrovano in carceri di Paesi compiacenti, disposti a interrogarli con ogni mezzo e a detenerli senza processo. Non si tratta di illazioni ma di fatti ammessi anche dal Dipartimento di Stato americano che ne parla come di una prassi usata e abusata anche ai danni dei cittadini europei.

L’espulsione di Foued è illegittima perché:non ci sono prove, non è mai stato indagato né in Italia né all’estero; non ha goduto del diritto di difesa; esiste un divieto di espatrio verso Paesi ove chi viene espulso potrebbe essere soggetto a pene illegali e comunque ove non gode dei diritti civili. La Tunisia, secondo il rapporto di Amnesty International del 2006 non garantisce i diritti e pratica la tortura. Il nostro Paese aderisce a patti comunitari, europei e internazionali, che garantiscono la difesa di tali diritti.

Chiediamo che il governo italiano si faccia carico: di garantire l’incolumità della vita di Foued Cherif; di riportare immediatamente Foued Cherif in Italia dalla sua famiglia; dei danni economici e morali causati a Foued ed alla sua famiglia.

PETIZIONE – APPELLO


“NON LASCIAMO SPARIRE FOUED CHERIF”

Chiediamo ai deputati e ai senatori che si facciano promotori di un’interrogazione parlamentare affinché si faccia chiarezza su quanto è successo.

Non lasciamo soli Foued e la sua famiglia:

1.      Diffondi la petizione www.centrodelleculture.org/petizioni/foued ad altre organizzazioni, a liste di amici, su blog, etc.

2.      Mettici in contatto con giornalisti (giornali, televisioni, radio)

3.      Mettici in contatto con legali che possono collaborare nella raccolta di informazioni ed esperienze utili.

4.      Contatta personaggi politici e istituzioni che si interessino al caso. Dopo essersi documentati, esprimano attraverso comunicati stampa la loro posizione.

5.      Aiutarci a raccogliere i fondi per sostenere le spese legali e la famiglia di Foued.

Per informazioni: Lucia Vasciminno – www.centrodelleculture.org/petizioni/foued
mail:info@centrodelleculture.org

Breve biografia di Foued Cherif

CHERIF FOUED BEN FITOURI è nato a Tunisi il 31 maggio 1970.

Cherif Foued  vive in Italia da oltre10 anni dove ha un lavoro, è sposato con una cittadina italiana e ha tre bambine: Amira 10 anni, Sara 5 anni e Asia 2 anni e mezzo.

Purtroppo è stato espulso ingiustamente. 

Oltre alla sua attività lavorativa (ha una sua impresa edile la Cherif Edilizia), si è da sempre occupato dei problemi legati all’ integrazione e al rispetto dei diritti dei cittadini stranieri a Milano, ha partecipato ad attività con il Centro delle Culture di via Vela a Milano, ha promosso il dialogo tra le culture collaborando alla redazione e diffusione della rivista Alien. Tutte queste attività lo hanno portato ad avere numerosi contatti con persone che oggi possono testimoniare il suo impegno sociale la sua serietà e disponibilità.

ASS. DIALOGO ONLUS  | AFFILIATO FIAU REDAZIONE ALIEN  | CENTRO DELLE CULTURE VIA VELA, 8 – MILANO – ITALY CELL. +39. 335491731 TEL +39. 022049271 dialogo@dialogo.orgwww.dialogo.org

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Insorge Don Albino Bizzotto:

gennaio 23, 2007

Vicenza: «Pronti all’insurrezione pacifista»

Tre interviste a don Albino Bizzotto, pubblicate sui giornali del 18 gennaio

La Stampa:

I 4 cavalieri anti zio Sam

«Insurrezione pacifista». E’ un prete padovano, don Albino Bizzotto, presidente dell’associazione «Beati i costruttori di pace» a lanciare, il giorno dopo la scelta di Romano Prodi a favore dell’ampliamento della base americana, la nuova parola d’ordine del movimento contro i militari Usa all’aeroporto Dal Molin. Veterano delle mobilitazioni pacifiste fin dai tempi di Comiso, don Bizzotto è da mesi uno dei personaggi di riferimento di un movimento dai caratteri originali, cresciuto in pochi mesi a Vicenza attorno alla questione Dal Molin.

Da pacifiche casalinghe di provincia ai giovani Disobbedienti dei circoli sociali, da vecchi militanti di sinistra delusi dai compagni Bertinotti e Fassino alle «Famiglie per la pace» di un Veneto che non è più quello dei tempi della Balena bianca ma che fatica tra il mito del benessere e le nuove solitudini a ritrovare una sua identità. Spiega don Bizzotto che la sua parola d’ordine significa «una presa di coscienza molto forte contro decisioni governative imposte dall’alto. Cambiano i governanti, non i metodi. Negli incontri pre-elettorali con i movimenti pacifisti, Prodi sembrava aperto ai nostri contenuti, ora si assume tutta la responsabilità morale della sua scelta».

Don Bizzotto, le sue parole non rischiano di radicalizzare la protesta? «Certo, la situazione può degenerare. Non si può pretendere che i giovani tengano i nervi saldi quando il potere esercita sulla pelle della gente una violenza così calcolata», ribatte il prete.

Rabbia, sdegno, mobilitazione. Il giorno dopo a Vicenza non è un qualsiasi tranquillo mercoledì d’inverno. In corso Palladio, nei bar e nei negozi che offrono i saldi di stagione, si parla con preoccupazione del futuro della città ma, soprattutto, della svolta che ha assunto la protesta con il blocco, martedì sera, della stazione ferroviera in piena fiera dell’oro.

Fuori dal Pigafetta e dal Lioy, i due licei più prestigiosi di Vicenza, dove non c’è mai stata neanche un’occupazione, circolano i volantini per la manifestazione di oggi. Scritta sul muro: «Gli americani ci tolgono il nostro futuro». Oscar, 17 anni, moto Aprilia e tuta della Danese, oggi partecipa al primo corteo della sua giovane vita: «Dovevano lasciare scegliere a noi vicentini, con il referendum». Giovanni, 17 anni, rappresentate di istituto del Lioy, da no global attacca: «Prodi ci ha preso per il culo!». Matteo, 17 anni di Forza Nuova al corteo non parteciperà «ma anche noi dell’estrema destra siamo contro la base Usa». Chiedo: fate un sogno, cosa vorreste al posto della base? «Uno skate park», rispondono i due in coro.

«Dicono che noi vicentini siamo polentoni “basa banchi” e “conta schei”. Bene, sappiamo che si sono svegliati; non ci faremo comprare per un pugno di dollari. Vergogna!», dice Cinzia Bottene, la signora del movimento No al Dal Molin, anima dei comitati dei cittadini. Il giorno dopo la signora Bottene è più battagliera che mai. Martedì notte, lei tranquilla casalinga vicentina con marito dirigente aziendale, si è sdraiata sui binari alla stazione; poche ore di sonno e ha preso un treno per partecipare a Roma alla trasmissione di Giuliano Ferrara.

Dall’Eurostar detta la sua hit-parade dell’indignazione: «Prodi ha perso ogni dignità, bastava guardare la sua faccia mentre da Bucarest dava l’annuncio. Imbarazzante. E il ministro Parisi? Ci avevano fatto capire che il governo non avrebbe deciso senza referendum». Sullo striscione hanno scritto: «Prodi servo degli americani». Distinti signori arrivano con bottiglie di grappa, frotte di giornalisti e di operatori tv sono a caccia dei vicentini in lotta.

A Rettorgole, zona nord del Dal Molin, tra le villette non si era mai vista tanta confusione. Su un campo fangoso, il tendone bianco del centro sociale don Pedro di Padova è diventato il presidio del Movimento. «Compagno Bertinotti, i 500 iscritti della federazione di Vicenza sono pronti a restituire la tessera se non bloccherete la base!», annuncia Mariano Trevisan, 56 anni, del direttivo di Prc. Abita vicino al Dal Molin, a Caldogno, paese dove il Consiglio comunale aveva detto no alla base. Irrilevante. Attacca Trevisan: «Anche lasciando perdere i disagi del vivere accanto a una base militare, non posso accettare la scelta del nostro partito. Con Prodi si può trattare sulle pensioni, non sulla pace».

Radio Sherwood da Padova trasmette le voci della rabbia, dai No Tav della valle di Susa arriva la solidarietà. «Siamo in tanti, siamo forti, i cantieri non partiranno. Fermeremo le ruspe. Se pensano di trasportare le truppe da Vicenza ad Aviano bloccheremo il passante di Mestre. Vedremo cosa farà il ministro Amato», annuncia Francesco Pavin, leader dei Disobbedienti, ormai alla testa dei pasdaran del no. Padova, Schio, Mestre: il mondo sommerso dei centri sociali sembra ben ramificato, vera rete di sostegno alla protesta.

A Vicenza i Dissobedienti (leader indiscusso in Veneto Luca Casarini) si ritrovano in un capannone in via dell’Edilizia. «Non siamo ideologici, il nostro modello sono i comitati No Tav», insiste Pavin, 27 anni. Dal Piemonte al Veneto: Marco, compagno di Francesco, sta preparando una tesi di laurea proprio sulle analogie tra le due rivolte. «Non bruciamo bandiere Usa per rispetto alla popolazione americana che è contro Bush», dice Pavin. Ma sui metodi di lotta il suo discorso si fa più ambiguo: «la guerra è illegale», taglia corto. E cita i libri di Toni Negri.

Ieri sera asseblea animata nel tendone per decidere come continuare la lotta: erano in 150, e hanno deciso che stringeranno l’assedio sul governo. Prima a Roma, per manifestare domani davanti a Palazzo Chigi e poi nel week end a Bologna, per stringere d’assedio la casa di Romano Prodi, via Gerusalemme.

il manifesto:

«La decisione di Palazzo Chigi esprime il qualunquismo della politica»

Intervista a don Albino Bizzotto, in prima linea nella protesta contro l’ampliamento della base Usa di Vicenza. «Il governo ha tradito il suo programma»

Orsola Casagrande

Don Albino Bizzotto, fondatore e anima dei Beati Costruttori di Pace, tra gli animatori delle iniziative contro la nuova base militare americana al Dal Molin è soprattutto «amareggiato. Non capisco più questa politica – dice – Quando la gente cerca di partecipare alla costruzione di una democrazia reale, ecco che i padroni della politica si ergono a padroni della storia e prendono decisioni che non tengono minimamente conto della volontà della gente, delle comunità locali. Questo – aggiunge don Albino – è vero certamente qui nel Veneto, dove francamente non è la prima volta che assistiamo a scelte operate sopra la testa e la volontà dei cittadini».

Come definisce dunque questa decisione del governo di dare il via libera agli americani per il Dal Molin?

Per me è la manifestazione del qualunquismo della politica per noi cittadini. Se questi sono i segnali che il governo dell’Unione ci dà dopo averci presentato un programma in cui si impegnava a discutere in tutte le sedi e con tutti i soggetti necessari le servitù militari presenti nel nostro territorio, credo che ad essere buoni si può dire che hanno disatteso alla grande quel programma. Sul quale c’era scritto a chiare lettere che avrebbero promosso una nuova conferenza sulle servitù militari proprio per ridefinirne la presenza anche alla luce dei cambiamenti che ci sono stati a livello mondiale. Perché non si può pensare di continuare a fare politica con la logica di sessanta o settanta anni fa. Questi politici continuano ad avere la concezione del cittadino come soggetto minorato, e non sovrano, del cittadino incapace di capire quali sono le scelte da prendere tenendo presente interessi nazionali e internazionali.

Che succede adesso?

Credo che la prima cosa da fare sia rimettere insieme subito tutti quanti si sono espressi e dati da fare in questi mesi sulla questione del Dal Molin. Anche perché è evidente che c’è tanta gente che parla, dai politici ai media, senza sapere che cosa sia realmente il Dal Molin, che cosa sia davvero Vicenza, città militarizzata. Intanto domani (oggi, ndr) ci sarà a Vicenza la manifestazione degli studenti medi.

Il presidente del consiglio Prodi ha scelto la Romania per dire che il governo avrebbe dato il via libera al Dal Molin.

E’ incredibile. Ci si lamentava e si criticava giustamente Silvio Berlusconi perché comunicava decisioni pesanti quando stava all’estero. Ma Prodi ha fatto esattamente la stessa cosa. Ma doveva proprio comunicare una decisione così importante mentre si trovava a Bucarest? Non era forse il caso di rientrare, parlare, cercare dialogo. Alla fiaccolata a Vicenza c’era davvero una marea di giovani. Mi chiedo: che tipo di prospettiva offre questo governo con scelte di questo tipo? C’è una urgenza enorme di cambiamento, a livello globale, sulla gestione del territorio, sulle politiche internazionali e invece questi politici continuano a rimanere fuori dalla realtà. Negli Usa gli americani sono riusciti ad isolare Bush. Le tragedie a cui assistiamo oggi sono il frutto delle politiche di Bush e dei suoi alleati. E questi politici continuano a non prendersi le loro responsabilità.

Si riferisce all’Iraq?

Certo. Io sono stato a Baghdad, ho visto i soldati intabarrati sotto il sole cocente. Una parte è impazzita, un’altra è scappata. Io manderei i responsabili politici dentro una situazione di guerra perché davvero si sta giocando sulla pelle delle persone. Si grida al mostro di fronte ad un crimine individuale, ma di fronte a chi ha sulla coscienza migliaia di persone, non si dice nulla.

Liberazione:

«Pronti all’insurrezione pacifista»

Alex Zanotelli, don Bizzotto, Tonio Dell’Olio. Intervista ai tre sacerdoti non violenti delusi profondamente da Prodi e che chiamano alla lotta cittadina. «In ballo c’è il ruolo dell’Italia nel bacino Mediterraneo»

di Laura Eduati

Indignati. Delusi da Prodi. E pronti all’«insurrezione pacifista» nei confronti di un governo «che ci tratta come dei minorati». Il padre comboniano Alex Zanotelli, l’esponente dei Beati costruttori di pace don Albino Bizzotto e Tonio Dell’Olio, impegnato con Libera, si preparano ad una lotta non-violenta al fianco dei vicentini contrari all’ampliamento della base americana. Perché in ballo, dicono, non c’è solo una base militare, ma il ruolo dell’Italia nel bacino mediterraneo. Inutile insomma ritirare i soldati dall’Iraq per poi permettere che da una base in territorio italiano partano aerei destinati a bombardare Baghdad e dintorni.

Alex Zanotelli

«Non si possono accettare cose del genere. Siamo diventati una colonia, un Paese militarizzato. Senza contare che il costo del mantenimento della base di Vicenza sarà a carico dello Stato: 3-400milioni di euro l’anno. L’Italia si avvia a diventare la frontiera per la lotta al Medio Oriente. Il mio è un rifiuto netto, per questo sarò alla marcia vicentina del 3 febbraio. E per questo ho lanciato una campagna per il disarmo atomico, perché tra l’altro mica lo sappiamo se a Vicenza vi saranno armi di tipo atomico».

Obiezione: Prodi pare aver già deciso, che potere avranno le marce dei cittadini e dei pacifisti?

«Non mi interessa, il governo faccia quel cavolo che gli pare. L’importante è che i cittadini sono contrari. E’ incredibile che un Paese al 70% pacifista e contrario alla guerra in Iraq si decida di ospitare una base di quelle dimensioni».

don Tonio Dell’Olio

«Non scomoderei i principi sacri della non violenza. Sono le ragioni geopolitiche e geostrategiche a fare dell’ampliamento della base vicentina una scelta nefasta. Alla vigilia del forum di Nairobi, l’Africa chiede all’Italia e all’Europa di agire da ponte con il Medio Oriente, e noi invece “ospitiamo” chi da anni persegue una politica minacciosa proprio nei confronti di quelle regioni. Sarebbe curioso che un governo che ha scelto di ritirare i soldati dall’Iraq poi ipocritamente presti il proprio territorio per attacchi all’Iraq. Prodi? Si è dimostrato intempestivo, doveva ascoltare i suoi alleati di governo e la popolazione. Ora dice che non sa dell’esistenza di un accordo tra Berlusconi e Washington. Peggio ancora, vuol dire che l’ha firmato lui. Mi ha deluso totalmente. Ora bisogna fare tutto ciò che è in nostro potere per fermare questo progetto. Capisco la paura dei lavoratori di venire licenziati nel caso la base chiudesse, ma in questo caso si raggiungerebbero accordi sindacali per riassorbire gli operai e gli impiegati come è stato fatto per la riconversione dell’industria bellica».

Sarebbe al fianco della popolazione nel caso di una resistenza alla Val di Susa?

«Se questa fosse l’ultima opzione, sì. Dobbiamo capire che la questione non riguarda solo Vicenza ma l’intero bacino Mediterraneo».

Don Albino Bizzotto

Il 16 gennaio all’Ansa parlava della necessità di una «insurrezione pacifista» per denunciare «il tradimento della politica e di una classe politica che di fronte ai problemi del mondo e alla volontà della gente crede di essere padrona della storia ».

«Parlo di insurrezione perché l’ampliamento della base tocca le coscienze di tutti, ed esprime un modo di stabilire contatti con i popoli e con il pianeta che noi disapproviamo completamente. Questa scelta politica mantiene intatta la logica della guerra, e va modificata. In concreto faremo una riunione con tutte le forze che hanno lavorato finora e vedremo in che modo piantare una opposizione politica e allargare la presa di coscienza. Se si decidesse un resistenza non violenta come quella in Val di Susa la abbraccerei senza esitazione, perché da parte della politica è esplicita la mancanza di responsabilità su ciò che avviene nel presente e ciò che potrebbe accadere nel nostro futuro. Mi piace fare un paragone con la battaglia di Comiso del 1983. Lottammo in forma straordinaria e non-violenta, e perdemmo. Ma Comiso rimane un monumento alla miopia politica. Devo dire che Prodi mi ha deluso, anzi, molto più che deluso».

La scelta dell’ampliamento inciderà ancora una volta sul territorio veneto?

«Certo. Il progetto Dal Molin è solo la punta dell’iceberg della distruzione ambientale nella regione. Chi governa agisce sempre di soppiatto per andare contro gli interessi della popolazione e contro la sua capacità di organizzarsi. Oggi i politici ci stanno trattando da minorati, come se loro cogliessero il senso delle decisioni e noi no, preferendo un accordo con un alleato invece di soddisfare il benessere dei propri concittadini. Dettaglio non da poco: l’Italia è il Paese che ha la maggiore quantità di persone al forum sociale di Nairobi, mentre Prodi decide di piegarsi alle richieste degli americani»

Statistiche omicidi:

gennaio 23, 2007

la famiglia uccide più della mafia

In calo gli omicidi in Italia: prosegue nel Paese il tendenziale decremento del numero degli omicidi, più che dimezzato dal 1990 al 2005. Un calo del 64,5%, che ha visto passare gli omicidi da 1.695 a 601, valore più basso degli ultimi 30 anni. Sono i risultati del rapporto realizzato da Eures e Ansa sull’omicidio volontario in Italia, presentato dal presidente dell’Eures Fabio Piacenti, dal direttore dell’ Ansa Giampiero Gramaglia, dal condirettore generale dell’agenzia Michele Gatta e commentato dal procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso e dal criminologo Francesco Bruno.
La famiglia uccide più della mafia e della criminalità comune. Secondo il criminologo Francesco Bruno, bisognerebbe porre più attenzione ai segnali premonitori. «In Italia – spiega – mancano gli strumenti sociologici e giuridici per intervenire quando ci sono le avvisaglie. Non c’è alcun supporto per chi denuncia situazioni di maltrattamenti o violenze». Si conferma nel 2005 la prevalenza di omicidi di prossimità, maturati nella sfera familiare, di relazione o di amicizia o all’interno di relazioni di vicinato o economiche. La diminuzione dei delitti rilevata nel 2005 investe soprattutto gli omicidi di stampo mafioso (meno 23,2%) e meno quelli familiari (meno 7 per cento). Il calo del numero complessivo di omicidi, e in particolare di quelli di stampo mafioso, è un dato da valutare positivamente, ma non può essere utilizzato, secondo Pietro Grasso, procuratore nazionale antimafia, «per misurare la pericolosità della mafia» e, soprattutto, «non significa che le capacità strategiche e militari delle organizzazioni criminali sono diminuite». In controtendenza, invece, l’aumento dei delitti della criminalità comune o occasionale (+ 28,2%) che denota, accanto alla diffusione di delitti collegati ai reati comuni, quella di omicidi compiuti da gente qualunque, spesso giovani estranei al mondo della malavita, che si trasformano in assassini per banali litigi o per futili motivazioni. Delitti, in generale, sempre meno d’impeto e sempre più premeditati (8 su dieci).

Predominante il ruolo della armi da fuoco, visto che il 54,2% delle vittime cade sotto i colpi di fucili e pistole. L’abitazione della vittima è il luogo privilegiato dei delitti, il lunedì il giorno più cruento. La vittima, in otto casi su dieci, è un uomo. La metà delle vittime ha fra i 25 e i 44 anni. Il killer, 9 volte su 10, è un uomo.
Oltre la metà degli omicidi avviene al Sud (57,6%), seguito dal Nord (29%) e dal Centro (13,5 per cento). L’indice di rischio, ovvero il numero di delitti ogni 100mila abitanti è pari all’1,7 al Sud e a 0,7 al Centro e al Nord. Il record di omicidi è stato registrato in Campania (128 vittime nel 2005), ma l’indice più elevato è in Calabria con 3,4 omicidi ogni 100mila abitanti. Triste il primato di Napoli, capitale dell’omicidio, in valori assoluti, con 88 vittime, seguita da Reggio Calabria (39), Roma (36), Caserta e Milano (28), Torino (17), Palermo (15) e Nuoro (13).
In termini di incidenza del fenomeno, invece, la maglia nera è di Reggio Calabria con 5,8 omicidi ogni 100mila abitanti, seguita da Nuoro e Crotone.
Oltre la metà degli omicidi, il 58%, avviene nei Comuni piccoli e medi, soprattutto in quelli fra 15mila e 50mila residenti (23,5% di quelli avvenuti in Italia).
Al Nord prevale l’omicidio familiare che muove un omicidio su due, seguito dagli omicidi della criminalità comune; al centro il primo ambito è quello familiare, con il 46,3% dei delitti consumati; al secondo posto gli omicidi fra conoscenti,s seguiti da quelli compiuti dalla criminalità comune o occasionale. Al Sud il primo ambito si conferma, sia pur in flessione, quello della criminalità organizzata, seguito dall’aumento dei delitti compiuti dalla criminalità comune.
Sei autori di omicidi su dieci finiscono dietro le sbarre, ma ancora il 41,6% dei casi restano insoluti. Aumenta, però, del 3%, l’incidenza dei casi risolti. Le ore successive a un delitto sono fondamentali: nel 2005 il 56,8% degli autori sono stati arrestati nelle 48 ore successive al delitto e il 12,7% entro i primi 7 giorni.

di Nicoletta Cottone

Abir Aramin. r.i.p.

gennaio 23, 2007

Ten-year-old girl brain dead after border police shooting
Report, International Solidarity Movement, 18 January 2007

Abir’s sister, Arin, and a school friend who were walking with Abir when she was shot in the head two days ago. (Oren Ziv/activestills)

Abir Aramin, ten years old, who was wounded by an Israeli border policeman Tuesday the 16th, was announced brain dead this morning at the Haddasa Ein Karem hospital and is being examined by a committee to determine whether or not to unplug her from life support machines.

Bassam Aramin, the girl’s father, is a member of Combatants for Peace, the Israeli-Palestinian peace organisation. Israeli and international supporters have gathered at the girls school in Anata to express their solidarity and protect the traumatised students from the ongoing threat of the Israeli border police.

Hassan, a sixteen-year old student who witnessed Abir’s injury and carried her back to the girls school stated, “the students of the girls school and the boys school had both just come out of an examination. A border police jeep approached the gathering of girls. The girls were afraid and started running away. The border police jeep followed them in the direction in which they were retreating. Abir was afraid and stood against one of the shops at the side of the road, I was standing near her. The border policeman shot through a special hole in the window of the jeep that was standing very close to us. Abir fell to the ground. I picked her up and took her to the girls school. I saw that she was bleeding from the head.”

The two girls outside the shop where Abir was shot. (Oren Ziv/activestills)

According to Avichai Sharon of Combatants for Peace and a friend of the family, “The Israeli border police have been entering Anata frequently when students go and return from school for the last year and eight months. This began with the construction of the Wall near Anata, supposedly in order to protect the construction workers from the students, but construction of the wall was completed over a month and a half ago.” According to Wael Salameh, a close friend of the family and a member of Combatants for Peace, “This week border police would invade the village twice a day when the students were going and returning from school.”

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Iraq, il petrolio ai colossi stranieri.

gennaio 9, 2007

 – “Il futuro dell’Iraq: la divisione del bottino di guerra”, ovvero “come l’Occidente distruggerà le riserve petrolifere dell’Iraq”. Con questo titolo The Independent on Sunday, anticipa la controversa legge che sta per arrivare al Parlamento di Baghdad, e di cui è riuscito a vedere una bozza, che permetterà ai colossi stranieri, in particolare quelli statunitensi, di sfruttare la enormi riserve di oro nero dell’Iraq, le terze per dimensione del pianeta. Alla sua stesura ha partecipato la stessa amministrazione Usa, scrive l’edizione domenicale del quotidiano britannico. Una legge che assegnerà a colossi petroliferi come BP, Shell e Exxon, contratti trentennali per estrarre il greggio iracheno, permettendo per la prima volta, dalla nazionalizzazione del settore nel 1972, il ritorno delle multinazionali petrolifere sul suolo dell’Iraq. Torneranno allora in mente le parole del vice-presidente Usa Dick Cheney, che nel 1999, quando era ancora Amministratore delegato della Halliburton, disse che “il mondo avrà bisogno di ulteriori 50 milioni di barili di petrolio al giorno entro il 2010”. Da dove arriverà il petrolio? Si interrogava Cheney, affermando: “Il Medio Oriente, con due terzi del petrolio mondiale ai prezzi più bassi, è ancora il luogo dove si trova la ricompensa finale”. Questa legge – scrive il giornale britannico – darà peso alle voci critiche di quanti hanno sempre sostenuto che la guerra in Iraq fu combattuta per il petrolio. Secondo i suoi oppositori, l’Iraq, la cui economia si basa per il 95% sul petrolio, viene costretto a consegnare una inaccettabile percentuale della sua sovranità agli stranieri. Secondo i vertici del settore e gli analisti – si legge nell’articolo – questa misura, che nei primi anni di sfruttamento delle risorse petrolifere permetterà alle compagnie straniere di intascare tre quarti dei profitti, è l’unico modo per rimettere in piedi l’industria petrolifera dopo anni di sanzioni, guerra e fuga di esperti. Ma lo sfruttamento dei giacimenti avverrà attraverso gli “accordi di condivisione della produzione” (production-sharing-agreements, o PSA), particolarmente vantaggiosi per le compagnie straniere (e svantaggiosi per i Paesi produttori), che non sono adottati in Medio Oriente, dove l’industria del petrolio – anche in Arabia Saudita o Iran, i due maggiori produttori mondiali – è controllata dallo Stato.

Fonte: Apcom 7/01/2007

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Raid Usa sulla Somalia, almeno 30 morti

gennaio 9, 2007

 somalia, una bambina beve del latte

Il governo degli Stati Uniti interviene nella crisi somala con un doppio bombardamento nei confronti di presunti terroristi di al Qaida in due diverse località nel sud della Somalia. Il ministro della Difesa somalo, Barre «Hirale» Aden Shire, ha dichiarato che un aereo AC-130 ha colpito, lunedì pomeriggio, obiettivi di al Qaida a Ras Kiamboni. Mentre, secondo testimoni oculari, martedì elicotteri hanno sferrato un nuovo bombardamento sempre nel Sud del Paese. .

Ci sarebbero già alcune vittime: secondo il governo ad interim i morti dell’attacco sono almeno 30. Un portavoce ha precisato che l’attacco era autorizzato dal governo del premier somalo Ali Gedi, e ha preso di mira 3 villaggi nei pressi del confine con il Kenya divenuti il rifugio di presunti «miliziani islamici» sospettati degli attentati alle ambasciate americane in Kenya e Tanzania che nel 1998 fecero oltre 200 vittime. Ma, secondo testimonianze locali, le vittime sarebbero soprattutto civili, compresi i 6 componenti di un’unica famiglia che partecipavano a un matrimonio. Secondo quanto anticipato dalla tv americana Cbs, che ha citato fonti del Pentagono, gli Usa avrebbero colpito il leader di al Qaida nell’Africa orientale e un membro dell’organizzazione terroristica, sospettato di aver partecipato agli attentati del 1998.

Secondo quanto riportato dall’agenzia missionaria Misna i civili in fuga dalle zone sotto attacco hanno raccontato di aver visto decine di cadaveri di miliziani delle Corti islamiche e di aver contato almeno una sessantina di loro veicoli distrutti durante i bombardamenti.

«Già domenica scorsa aerei etiopici avevano bombardato la zona, uccidendo almeno 5 civili e una decina di animali di una mandria» ha detto alla Misna una fonte umanitaria locale contattata per telefono che conferma anche combattimenti tra miliziani delle Corti islamiche e truppe etiopiche nella zona colpita dagli Usa.

Il presidente somalo Abdullahi Yusuf ha dichiarato che Washington ha «il diritto di bombardare i sospetti terroristi che hanno attaccato le sue ambasciate». Il comando Usa ha annunciato l’invio al largo delle coste somale della portaerei UssDwight D. Eisenhower per operazioni di anti-terrorismo.

La Somalia negli ultimi mesi è stata teatro di scontri tra le Corti islamiche e il governo provvisorio del presidente Yusuf. Da quando a luglio del 2006 le Corti islamiche hanno preso il controllo di Mogadiscio e di oltre due terzi del territorio nazionale, Washington ha iniziato una battaglia contro il movimento islamico accusandolo di sostiene al Qaeda. Gli Usa in Somalia sostengo quindi finanziariamente i cosiddetti “signori della guerra” che combattono contro le Corti. E poi da dicembre, quando l’Etiopia entra ufficialmente nel conflitto somalo e il governo di Addis Abeba annuncia un «contrattacco» contro le milizie delle corti islamiche, Washington cambia strategia e appoggia l’Etiopia. A questo punto, il 28 dicembre 2006, le truppe etiopiche cacciano le milizie delle Corti islamiche da Mogadiscio. E gli Usa si spostano a largo della Somalia e del Kenya per bloccare gli islamici in fuga.

Il bombardamento dei villaggi al confine del Kenia avvenuto lunedì, ma di cui si è avuto notizia solo il giorno successivo, è quindi l’ultimo atto dell’intervento Usa nel Paese.

www.unita.it

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Antoine Gizenga : le parcours

gennaio 8, 2007

Le président de la République, Joseph Kabila a nommé samedi Antoine Gizenga premier ministre par ordonnance. radiookapi.net fait découvrir le parcours politique et professionnel du nouveau promu.

Agé de 80 ans, Antoine Gizenga Fundji est originaire de la province du Bandundu. Il est marié à Anne Mbuba et père de quatre enfants. Considéré comme l’un des pères de l’indépendance congolaise, il devient chef du parti Solidaire Africain, PSA, en 1959. Il est ensuite élu député national lors des législatives de 1960. Il devient par ce fait vice-premier ministre dans le gouvernement Lumumba. Il dirige alors à Kisangani le gouvernement de la République populaire du Congo, une rébellion d’après le coup de force de Mobutu de septembre 1960.

A l’issue du conclave de Lovanium en août 1961, il est nommé vice-premier ministre dans le gouvernement de Cyrille Adoula. Destitué quelques temps après, il est emprisonné jusqu’en 1964 sur l’île Bula Mbemba à l’embouchure du fleuve Congo. Libéré par le premier ministre Moïse Tshombe en juillet 1964, il crée le 22 août suivant, avec d’autres dirigeants nationalistes, le Parti lumumbiste unifié, Palu, dont il est élu secrétaire général. Arrêté de nouveau, il est en résidence surveillée pendant 14 mois jusqu’au coup d’Etat du 24 novembre 1965.

A la prise du pouvoir par Mobutu Sese Seko dans les années 65, Gizenga se réfugie tour à tour à Moscou, en Angola et au Congo-Brazzaville. Il restera ainsi opposant au régime de Mobutu. Puis, il se démarque de l’autre opposant Etienne Tshisekedi dans le processus électoral. Il se porte candidat à l’élection présidentielle. Le secrétaire général du Palu est battu au premier tour du scrutin. Mais il occupe la 3è position après Jean-Pierre Bemba. Son score de 13 % de voix réalisé au premier attire Kabila. Les deux hommes signent une alliance. C’est cette alliance qui vient de Gizenga porter aujourd’hui à la primature.

Sur le plan professionnel, le nouveau premier ministre a débuté ses études au petit séminaire de Kinzambi au Bandundu. Jusqu’en 1947, il étudie la philosophie thomiste au grand séminaire de Mayidi dans le Bas-Congo. Fonctionnaire à la Banque du Congo belge, il travaille ensuite à la sûreté coloniale à Léopoldville. Antoine Gizenga embrasse la profession d’enseignant et s’engage dans la vie politique.

B’Tselem

gennaio 8, 2007

L’organizzazione israeliana per la difesa dei diritti umani, ha pubblicato il report sulle violazioni israeliane nel 2006.
Ecco i dati:
660 palestinesi uccisi, di cui 141 minori e 322 di non-combattenti e 22 omicidi mirati.
Nella sola Striscia di Gaza, dalla cattura del soldato israeliano Gilad Shalit, a giugno, le forze israeliane hanno ucciso 405 palestinesi, compresi 88 minorenni. Di questi 205 non stavano partecipando a combattimenti.

Da parte loro, nel 2006, i palestinesi hanno ucciso 23 israeliani, compresi 6 membri delle forze di sicurezza e un minorenne.

Prigionieri
Le autorità di occupazione hanno imprigionato 9.075 palestinesi, compresi 345 minorenni. Di questi, 738 (22 minori) sono tenuti in amministrazione detentiva, senza imputazione alcuna.
Demolizioni delle abitazioni
Le autorità israeliane hanno demolito 292 case, di cui 279 nella Striscia di Gaza, che alloggiavano circa 1.769 persone. A Gerusalemme Est sono state abbattute 42 case perché senza “permessi”.
Checkpoint e limitazione negli spostamenti.
Israele ha 54 checkpoint permanenti nella West Bank, 12 altri solo nella città di Hebron. E circa 160 “volanti” istituiti ogni settimana.
Oltre a questi, i militari israeliani erigono barriere di cemento, di ferro, cumuli di immondizia e altri ostacoli che limitano gli spostamenti. Inoltre, l’accesso a circa 41 strade è limitato.

Dal 2000…
I dati delle violazioni israeliane a partire dall’inizio dell’Intifada di Al-Aqsa, nel settembre 2000, sono i seguenti:
4005 uccisi, di cui 811 minori. 1920 delle persone uccise non stavano partecipando a combattimenti o attività ostili.
210 assassinii mirati.
I palestinesi hanno ucciso 701 civili israeliani, sia nella West Bank sia in Israele, compresi 119 minori. Inoltre, sono stati uccisi 316 membri delle forze di sicurezza israeliane. 

http://www.btselem.org/english/Press_Releases/20061228.asp 

Tali Fahima libera dopo 2 anni:

gennaio 8, 2007
6 gennaio, 2007 Corriere della Sera
 
Votava Likud, sosteneva Sharon. Un viaggio nei Territori le ha cambiato la vita. Condannata per aver minacciato la sicurezza dello Stato, è stata appena scarcerata
 
L’ israeliana «amica del nemico»: volevo capire i kamikaze

era legata al capo dei miliziani palestinesi a Jenin

     
DAL NOSTRO INVIATO TEL AVIV – La faccia di Zakaria Zubeidi sembra coperta di pepe, l’ esplosivo si è conficcato sotto la pelle quando una bomba che stava preparando gli è saltata tra le mani. I denti bianchissimi si aprono in mezzo alla cipria nera in un sorriso da clown inquietante. Da quel volto e dal quel che rappresenta è rimasta attratta Tali Fahima. Che quattro anni fa ha preso un autobus in Israele e si è presentata al checkpoint di Jenin. A piedi ha attraversato il reticolato e una linea invisibile: è diventata un’ amica del nemico. Mercoledì la ragazza ha lasciato la prigione di Neve Tirzah, dopo aver passato 26 mesi in cella, condannata per «aver avuto contatti con un agente straniero e aver passato informazioni con l’ obiettivo di mettere in pericolo la sicurezza dello Stato». Di fronte ai giudici si era dichiarata colpevole per evitare accuse molto più gravi e quindici anni per ogni imputazione: collaborazionista in tempo di guerra, sostegno a un’ organizzazione terroristica, porto illegale d’ armi. Gli israeliani hanno seguito la sua storia come una telenovela oscura, dopo l’ arresto nel maggio del 2004. Per la maggior parte è una traditrice, «la prostituta degli arabi», perché sui giornali sono girate le voci che quella con Zubeidi non fosse soltanto un’ amicizia, qualcuno ha parlato di una gravidanza e poi di un aborto in carcere. L’ estrema sinistra l’ ha adottata come un’ eroina solitaria, una prigioniera politica perseguitata per aver denunciato l’ occupazione contro i palestinesi. «È stata punita non solo per aver violato la legge – commenta il quotidiano liberal Haaretz – ma anche per la provocazione espressa dalle sue azioni, dalle sue opinioni, convinzioni e commenti». Tali non si considera un simbolo, «sono un’ israeliana che ha deciso di provare a capire cosa spinga un giovane a indossare una cintura esplosiva e a farsi saltare in mezzo alla gente». Per capirlo è andata dall’ altra parte («sono uscita dalla bolla in cui viviamo»), in quella che durante la seconda intifada l’ intelligence aveva ribattezzato «la capitale dei kamikaze», il campo rifugiati di Jenin, in Cisgiordania. Per capirlo ha voluto parlare con il capo delle Brigate Al Aqsa, il super-ricercato che gli israeliani hanno tentato di ammazzare tante volte. Sta passando i primi giorni di libertà (è stata rilasciata sulla parola con dieci mesi di anticipo) a Jaffa, l’ area a maggioranza araba nel sud di Tel Aviv. Seduta in un piccolo caffé che fa da ritrovo per i pacifisti locali, circondata da libri che portano sulle copertine colombe e ramoscelli d’ ulivo, racconta come abbia scelto di incontrare proprio Zubeidi. «Mi sono identificata con lui perché abbiamo la stessa età, 29 anni, ma le nostre vite sono state completamente differenti. Zakaria rappresenta la storia del popolo palestinese. Da ragazzino ha cominciato lavorando come manovale in Israele, è rimasto scioccato dalle differenze economiche e sociali, è diventato un militante solo per combattere per la sua libertà. Non è un politico, è esausto della guerra come tutti noi». Quando riesce a ottenere il suo numero da un giornalista, lo chiama e restano al telefono per cinque ore. «Abbiamo organizzato la prima visita al campo profughi. Ero terrorizzata, tremavo, non avevo idea di che cosa aspettarmi. Credevo mi uccidessero. Le guardie del corpo erano convinte che fossi una spia». Gli occhiali dalla montatura in plastica nera ricordano il suo vecchio lavoro di segretaria in uno studio legale, i capelli sono lunghi e scuri, non li tinge più. La biondina della vita precedente votava per il Likud e sosteneva Ariel Sharon, come ha sempre fatto sua madre e tutti i vicini del quartiere a Kiryat Gat, città povera per immigrati poveri, soprattutto di origine marocchina. «Fahima ha infranto un tabù – spiega al Guardian l’ antropologa Smadar Lavie -. Per i mizrahi, gli ebrei arrivati dai Paesi mediorientali, avere simpatie verso i palestinesi è inammissibile. Il resto della nazione ha paura che formino un’ alleanza». Tali non si sente una «quinta colonna»: «Anche se considero il sionismo un progetto ashkenazita (gli ebrei dell’ Europa centro-orientale, ndr) sono un’ israeliana e un’ israeliana voglio rimanere. Ma non permetterò ai miei figli di entrare nell’ esercito». Non è pronta a criticare la società palestinese («non ne faccio parte, mi preoccupano i problemi del mio Paese») e dice di voler contribuire a «creare speranza per un futuro migliore». Lo Shin Bet l’ ha accusata di aver tradotto per Zubeidi e i suoi uomini materiale top secret con dettagli sugli estremisti ricercati, documenti persi da un soldato durante un’ operazione a Jenin. Era disposta a fare da scudo umano per proteggerlo dai tentativi di omicidio mirato. Ripete che la loro relazione è stata platonica. «Un’ amicizia speciale. Abbiamo parlato di tutto, lo chiamavo anche per raccontargli dei miei fidanzati». (ha collaborato Lisa Goldman)
     
Frattini Davide

La cura, peggio della malattia

gennaio 8, 2007

Un conteggio dei soldati caduti in Iraq conferma che il loro numero è maggiore di quello dei morti negli attentati dell’11 settembre. La “guerra” per difendere la sicurezza nazionale è più letale del terrorismo.
I fatti accaduti quell’11 settembre del 2001 hanno rappresentato l’inizio di quella chiamata guerra contro il “terrorismo internazionale”. Questa categoria astratta e poco chiara, è servita come pretesto affinché il presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, si mettesse a capo di una cruenta invasione in Iraq, che si è già portata via più di 600 mila vite.

Invece, le scuse usate per l’intervento armato stanno cadendo una ad una. La prima di queste è stata la teoria della presenza di armi di distruzione di massa in Iraq, cosa che non si è mai potuta verificare e, infatti, ha dovuto essere riconosciuta come un errore da vari funzionari dell’ intelligence statunitense, come l’ex segretario della difesa, Donald Rumsfeld.

Un’altra delle scuse è stata la necessità di pacificare il Medio Oriente, e farla finita con Al Qaeda, organizzazione terroristica nascosta, secondo Washington, in vari stati della regione. Invece, tre anni dopo l’inizio dell’invasione in Iraq, il Medio Oriente è molto lontano dalla pace, e i fatti accaduti attualmente hanno dimostrato paradossalmente che, se c’è un terrorismo, continua ad operare nonostante le azioni belliche degli Stati Uniti.

L’ultima scusa è caduta qualche giorno fa, quando una statistica fatta conoscere da varie agenzie internazionali, dimostrava che, nell’avventura militare in Iraq, sono morti più statunitensi che nei fatti dell’11 settembre. Questo, automaticamente, distrugge il pretesto domestico della sicurezza nazionale con il quale l’amministrazione Bush ha voluto giustificare la popolazione del suo Paese, l’incursione delle truppe in terre così lontane.

Quanto accaduto l’11 settembre del 2001 ha lasciato 2.973 morti a New York, a Washington e in Pensilvania, mentre le cifre dei marines e dei civili statunitensi caduti in guerra oscilla tra i 2.974 (secondo l’agenzia AP) e i 2.982. Questo ultimo dato proviene dal sito globalsecutity.org (e non globalsecurity.com, come invece era stato divulgato erroneamente da vari servizi informativi), che pubblica un resoconto dettagliato mese per mese dei feriti e dei morti in Iraq.

Allo stesso modo, il Pentagono ha informato ufficialmente del fatto che, fino allo scorso 22 dicembre, erano morti in Iraq 2.957 soldati. Nonostante la cifra sia minore di quella stipulata dal sito web menzionato prima, bisogna considerare che i dati ufficiali si stimano sempre dietro il resoconto di altri gruppi e di altre organizzazioni, dato che non si conteggiano fino a che non sono state informate le famiglie.

Ad ogni modo, sono morti più statunitensi nella pantanosa occupazione dell’Iraq che l’11 settembre.

Giunti a questi livelli del conflitto, la situazione torna ad essere insostenibile. Al complesso insieme di cose che Bush ha dovuto affrontare dalla sua sconfitta elettorale, si somma questo dato, che può aumentare sempre di più lo scontento degli statunitensi. In questo senso, bisogna ricordare che, durante gli ultimi giorni della guerra del Vietnam, il richiamo di gran parte della popolazione riguardava i mille soldati morti in un conflitto che, a quei livelli, non aveva scusanti.

Inoltre, bisogna menzionare che il tema Iraq sta diventando il karma del presidente Bush, che deve decidere nei prossimi giorni come orientare il conflitto. Nell’immediato, il suo nuovo segretario della difesa, Robert Gates, si è mostrato, negli ultimi giorni, sostenitore dell’aumento delle truppe, cosa che genererebbe ancor più violenza.

Ciò che è certo è che, a più di tre anni dall’invasione, le acque non si sono per nulla calmate in Iraq. Ciò è dovuto al fatto che non sin sia arrivati a consolidare un governo stabile e a frenare i violenti scontri tra sciiti e sunniti.

Invece, mentre l’Iraq è in ebollizione, alcune imprese statunitensi si riempiono il portafoglio di dollari, con lo sfruttamento dei pozzi petroliferi e la ricostruzione delle città distrutte. Così funzionano le guerre, come apertura di mercati e bottini per pochi.

Nel frattempo, giornali statunitensi come il New York Times e il Los Angeles Times, dedicano le loro prime pagine alla conferma della pena di morte di Saddam Hussein, da parte di un tribunale di dubbie potestà. Neppure una parola sui marines e sui civili iracheni morti, che si avvicinano ai 650 mila.

Ad ogni modo, le scuse stanno finendo e ogni volta è più faticoso sostenere la menzogna della “guerra pacificatrice” o della guerra contro il terrorismo. Questa volta, la presunta cura ha causato più morti della malattia.

Tremila “facce della morte” online

gennaio 8, 2007

 

Il New York Times sceglie di pubblicare i volti dei caduti americani in Iraq

 

Gli ultimi giorni del 2006 hanno determinato la perdita numero 3.000, un soldato 22enne originario del Texas, ultimo tributo pagato dagli Stati Uniti alla missione Enduring Freedom. L´opinione pubblica statunitense, secondo i sondaggi sempre più convinta che la guerra in Iraq sia stata “un errore”, vive l´angoscia del dopo Saddam Hussein temendo nuovi attentati e piangendo i propri giovani.

Il New York Times, uno dei più autorevoli quotidiani statunitensi, ha pubblicato nella sua versione cartacea i volti di mille soldati caduti, quelli identificati dalla fine di ottobre 2005, dopo che nei mesi precedenti erano stati pubblicati quelli degli altri duemila, ovvero tutti quelli morti fino a quel momento. Una scelta che scuote l´opinione pubblica: i morti non sono più soltanto un numero in crescita, diventano dei volti di ragazzi e ragazze caduti.

Ora, le foto dei militari morti in Iraq il NYTimes li mette anche nel proprio sito Internet, con un´immagine che rappresenta uno dei soldati, scomposta in 3 mila pixel, pari proprio al numero totale dei militari deceduti in Iraq. Cliccando su ciascun pixel vengono fuori l´immagine e la storia di ogni singolo soldato o soldatessa uccisi in Iraq: dati anagrafici, città e stato di provenienza, data della morte. “Facce della morte” recita il titolo che accompagna il ritratto in bianco e nero, ma di alcuni caduti non è rimasta nemmeno la foto

Yasser Arafat ucciso

gennaio 8, 2007

QUANDO I MEDIA ISRAELIANI SI PONGONO DELLE DOMANDE

Yasser Arafat è stato assassinato?

Un anno dopo la morte di Yasser Arafat, che il generale Sharon indicava come il maggiore ostacolo alla pace, la stretta è completa: non solo Israele prosegue la colonizzazione, ma la vita quotidiana dei palestinesi resta molto difficile, anche nella prigione che è diventata la Gaza «liberata». Peggio ancora: cresce la minaccia di quella guerra civile che il rais cercava di evitare. È in questo contesto che i media evocano l’ipotesi di un avvelenamento…

Amnon Kapeliouk

Presidente dell’Autorità palestinese (Ap) e dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), Yasser Arafat si è spento esattamente un anno fa, l’11 novembre 2004, alle 3,30 del mattino, all’ospedale militare di Percy a Clamart, a sud di Parigi. Certo, le condizioni di Abu Ammar – come lo chiamano i palestinesi – si erano bruscamente aggravate nelle ultime settimane. È altrettanto certo che l’assedio posto dall’esercito israeliano al suo quartiere generale della Muqata, a Ramallah, a partire dal dicembre 2001 l’aveva costretto a vivere in condizioni sia fisiche che psicologiche estremamente difficili.
Ma, per numerosi dirigenti palestinesi che l’hanno dichiarato pubblicamente, nell’opinione pubblica dei paesi arabi e anche altrove, il caso era scontato: il rais era stato avvelenato dagli israeliani. Ed è quello che pensa anche il suo medico personale (giordano), il dott. Ashraf al-Kurdi.
A quello che sino a quel momento era semplicemente una convinzione interiore, una voce di corridoio, i media israeliani hanno dato, in queste ultime settimane, una certa credibilità: hanno ventilato la possibilità di una «liquidazione» del presidente palestinese.
Questo termine brutale è stato utilizzato, ad esempio, il 30 settembre scorso, da Yoram Binur, il corrispondente della seconda rete televisiva per i Territori occupati. Tre settimane prima, il supplemento settimanale del quotidiano Haaretz (1) aveva intitolato il suo articolo: «Arafat è morto di aids o è stato avvelenato». Ma, nel loro articolo, i giornalisti Amos Harel e Avi Isacharoff, citando un esperto israeliano, definivano «bassissima» la possibilità che Arafat avesse contratto l’aids, sottolineando invece come, per numerosi medici, i sintomi inducessero piuttosto a pensare a un avvelenamento. In un’opera pubblicata nell’ottobre 2005 a Parigi e intitolata La septième guerre d’Israël (La settima guerra d’Israele), (2) i due autori presentano infatti, senza pronunciarsi a favore dell’una o dell’altra, tre ipotesi: avvelenamento, aids o semplice infezione. E uno dei coautori, in privato, è favorevole alla prima…
Cosa dicevano i medici dell’ospedale di Percy, uno dei migliori in Europa nel campo dell’ematologia? Firmato il 19 novembre 2004 dal primario di ematologia, il dott. B. Pats, il referto medico riservato concludeva: «Nel tredicesimo giorno di ricovero presso l’ospedale della scuola militare Percy e all’ottavo giorno del suo ricovero nel reparto di rianimazione, Yasser Arafat è deceduto per un grave episodio vascolare cerebrale emorragico massiccio. Tale emorragia cerebrale si è innestata su un quadro clinico che comprendeva quattro sindromi (3) (…) Il consulto di un gran numero di esperti di diverse specializzazioni e i risultati degli esami effettuati non hanno consentito di delineare un quadro nosologico che spiegasse l’associazione delle sindromi».
Questo linguaggio medico piuttosto vago non è l’unico fondamento della voce lanciata dai palestinesi: questi si basano anche sull’intenzione espressa senza mezzi termini dal primo ministro israeliano, Ariel Sharon, di volere eliminare Yasser Arafat. A partire dalla primavera del 2002, il generale Sharon ha reiterato le sue minacce. Soltanto la promessa che ha dovuto fare al presidente George W. Bush gli impedisce di passare a vie di fatto. Il giorno del Capodanno ebraico 2004, il primo ministro ripete con tono martellante:«Arafat sarà scacciato dai territori». Scacciato o ucciso? Sharon ricorda che Israele ha ucciso lo sceicco Ahmad Yassin, capo spirituale di Hamas, e poi il suo successore Abd al-Aziz Rantissi. C’è differenza tra Arafat, Yassin e Rantissi? Risposta: «Non ne vedo nessuna. Così come abbiamo agito contro quegli assassini, agiremo contro Arafat»(4).
All’inizio del novembre 2004, il giornalista Uri Dan, confidente del primo ministro, scrive che questi «ha annunciato a Bush che non si considerava più vincolato da quello che gli aveva promesso nel loro primo incontro nel marzo 2001: non attentare alla vita di Arafat.
Il presidente Bush ha fatto osservare che è forse preferibile lasciare il destino di Arafat nelle mani dell’Onnipotente, al che Sharon ha risposto che a volte era opportuno dare una mano all’Onnipotente» (5).
Alla Muqata, queste dichiarazioni erano state prese ancor più sul serio, dal momento che l’unità scelta dell’esercito israeliano, la Sayeret Matkal, si addestrava per lanciare un eventuale assalto contro il quartier generale di Arafat, e per eliminarlo se se ne presentava l’occasione. Il generale Sharon avrebbe anche assistito a una di queste esercitazioni. E nessuno ignora che il suo grande rimpianto è quello di essersi lasciato «sfuggire» Arafat durante l’assedio di Beirut nel 1982. Il ministro della difesa Shaul Mofaz e il ministro degli affari esteri Sylvan Shalom auspicavano anch’essi la sua eliminazione. E il corrispondente militare della seconda rete, Rony Daniel, descriveva Yasser Arafat come «un morto che cammina»…
Ma per quanto convincente possa essere, la volontà dei dirigenti israeliani di sbarazzarsi del leader palestinese non potrebbe, da sola, dimostrare l’avvelenamento. Pertanto, è opportuno ritornare sulle condizioni di salute del rais.
Il 18 agosto 2004, ho assistito personalmente al discorso del presidente Arafat di fronte al Consiglio legislativo palestinese, riunito alla Muqata. Per ben due ore, ha passato in rassegna i problemi del momento, ripetendo due o tre volte – come era nel suo stile – le frasi chiave del suo intervento. In piedi, con la voce robusta, non aveva l’aspetto di un malato.
L’arrivo all’ospedale di Clamart Il 28 settembre, in occasione del quarto anniversario dell’Intifada al-Aqsa, lo rivedo per l’ultima volta. Mi saluta con l’abbraccio abituale e mi chiede mie notizie. «Va tutto bene, al-hamdou lillah [Che Dio sia lodato], ma tu, Abu Ammar, hai perso molto peso in poco tempo». Il suo viso è dimagrito, il suo corpo sembra ballare nelle vesti. «Non è niente», risponde. Durante il pranzo, partecipa attivamente alla conversazione, pur mangiando – come sempre – molto poco. All’improvviso, il suo portavoce Nabil Abu Rudeina mi sussurra all’orecchio: «Meglio finire qui, perché Abu Ammar ha bisogno di riposarsi». Arafat mi abbraccia di nuovo, e così ci separiamo.
Nel mese di ottobre, le sue condizioni di salute peggiorano. Il 12, quattro ore dopo la cena, accusa dolori di stomaco, vomito e diarrea.
Curato per una influenza intestinale, non reagisce alle medicine.
Gli esami del sangue rivelano che il numero delle piastrine è molto basso, ma quello dei leucociti è stabile. Il 27, aggravamento improvviso: perde conoscenza per un quarto d’ora. Yasser Abed Rabbo, che gli ha appena reso visita, mi dice in confidenza: «Le sue condizioni sono molto gravi, molto gravi».
L’indomani giungono i medici egiziani, poi quelli tunisini, e infine quelli giordani. Non riuscendo a stabilire l’origine del male, suggeriscono di trasferire il malato in un ospedale francese. L’Eliseo dà immediatamente il suo consenso. Il generale Sharon, per il tramite del suo capo di gabinetto Dov Weissglas, autorizza non soltanto la sua partenza, ma anche il suo ritorno, una volta guarito, e, per uno strano cambiamento di idee, propone di inviare alcuni medici israeliani a Parigi. Il 29 ottobre, in mattinata, gli assistenti trasportano Abu Ammar dall’edificio in cui era rinchiuso da ben trentacinque mesi in uno dei due elicotteri inviati dalla Giordania. Invece della immancabile kaffiah, il rais sfoggia un cappello di pelliccia, e abbozza uno strano sorriso: non è l’Arafat che conosco dal nostro primo incontro nel lontano agosto 1982, a Beirut Ovest assediata. Le lacrime scorrono sulle guance delle persone vicine a lui, allorché l’elicottero prende il volo per Amman, da dove un aereo militare francese con tutte le attrezzature mediche necessarie lo porterà a Parigi.
A Clamart, Arafat arriva cosciente, ma molto debole. I primi esami non rivelano né leucemia, né tumori, bensì una grave infiammazione dell’apparato digerente, che i medici combattono con forti dosi di antibiotici e di anti-infiammatori. Le sue condizioni migliorano: fa qualche passo nella sua stanza, parla al telefono con il presidente Jacques Chirac e numerosi dirigenti palestinesi. Ma, il 3 novembre, d’improvviso entra in coma. Soffre di una serie di sintomi gravi, attribuiti a una tossina sconosciuta che i medici francesi non riescono ad individuare. Soltanto un miracolo può salvarlo, dice il suo entourage.
Due settimane dopo il suo arrivo, il presidente Yasser Arafat chiude gli occhi per sempre.
Per spiegare questa morte improvvisa, la stampa israeliana, come abbiamo visto, ha indicato tre cause: infezione, aids o avvelenamento.
La tesi dell’infezione non ha alcun fondamento medico: nessun medico francese, palestinese, egiziano, tunisino o giordano ha affermato di aver scoperto una traccia d’infezione durante i vari esami effettuati.
Inoltre, se fosse stata un’infezione la causa della sua malattia, allora Arafat avrebbe potuto fronteggiarla con la somministrazione di antibiotici.
La tesi dell’aids sembra sia stata accennata con l’unico scopo di infangare l’immagine del rais. Infatti l’articolo già citato di Haaretz non apporta il minimo elemento probatorio. Un’inchiesta del New York Times ha escluso in toto tale ipotesi. I medici francesi non la citano mai. I medici tunisini hanno proceduto a un test Hiv: negativo. «È inconcepibile, assicura un esperto israeliano, che una malattia che è durata due settimane, con diarree terribili, vomito violento, grossi problemi dell’apparato digerente, e che ha provocato gravi disturbi di coagulazione, sia stata provocata dall’aids» (6). In realtà, nessun documento medico accenna alla malattia, rivela il dottor Ashraf al-Kurdi, medico personale di Arafat da oltre venti anni.
Avvelenamento? Le autorità israeliane bollano le accuse come «stupide» e «malintenzionate». Da parte palestinese, si ricorda il tentativo di assassinare a Amman, il 25 settembre 1997, uno dei dirigenti di Hamas, Khaled Meshal: due agenti del Mossad in piena strada gli avevano iniettato un veleno nell’orecchio. Furibondo, re Hussein aveva preteso che Israele fornisse immediatamente l’antidoto al veleno, in caso contrario si sarebbe assunto la responsabilità di provocare una grave crisi tra i due paesi. Il primo ministro Benyamin Netanyahu accettò di consegnare l’antidoto e, per calmare le acque, liberò anche settanta prigionieri palestinesi, fra cui lo sceicco Yassin.
Un caso simile non è comunque una prova: i medici dell’ospedale di Percy dichiarano, nel loro referto, di non aver rinvenuto tracce di veleno conosciuto. Per giunta, hanno chiesto ad altri due laboratori – quelli della gendarmeria e dell’esercito – di effettuare le ricerche: tutto inutile. Eppure, alcuni esperti ritengono che si possano facilmente fabbricare prodotti tossici sconosciuti, alcuni dei quali scompaiono subito dopo aver provocato il loro effetto…
Alcuni dirigenti israeliani – fra cui Ehud Barak – prendono in considerazione la eliminazione fisica del presidente palestinese soltanto se non si lascerà «nessuna traccia israeliana». Questo spiegherebbe il ricorso a un veleno non rintracciabile: «È certamente quello che è successo», assicura. Un giornalista e esperto israeliano di lungo corso che preferisce anche lui conservare l’anonimato, ha raccontato a numerosi colleghi che, non appena fu nota la malattia del leader palestinese, si era persuaso che il rais fosse stato avvelenato. C’è di più: tre personalità del settore della sicurezza avrebbero discusso con lui, separatamente, quale fosse il metodo migliore da utilizzare, e sarebbero giunte alla medesima conclusione: il veleno. Tutto questo avveniva all’inizio del 2004…
Medico dei re ascemiti, il giordano Ashraf al-Kurdi seguiva anche Abu Ammar, di cui conosceva la cartella clinica a memoria. Anche lui, poco dopo il decesso del suo paziente, dichiarò di percepire indizi di avvelenamento. Aveva esaminato Arafat durante la fase critica della sua malattia, prima del trasferimento in Francia, e non sapeva nulla dei problemi di circolazione che l’avrebbero stroncato. Per questo esigeva che si costituisse una commissione d’inchiesta indipendente per procedere una volta per tutte a una autopsia che avrebbe stabilito le cause del decesso. Dolori ai reni e allo stomaco, assenza totale dell’appetito, calo delle piastrine, perdita di peso notevole, macchie rosse sul viso, colorito giallastro: «Qualsiasi medico vi dirà che si tratta di sintomi di avvelenamento» (7). In effetti, solo una commissione indipendente potrebbe consentire di sapere se Arafat è morto assassinato oppure no. (8) Yasser Arafat desiderava essere sepolto a Gerusalemme, sulla spianata delle Moschee, il terzo luogo sacro dell’islam. Poiché le autorità israeliana si opponevano, la direzione palestinese ha scelto di seppellirlo alla Muqata, simbolo dell’ultima lotta di Abu Ammar per la creazione di uno stato palestinese indipendente. Una tomba del «padre» della nazione nel suo quartier generale devastato da un esercito d’occupazione, può esserci un simbolo più struggente? sottolineano i suoi compagni di viaggio. Fin dall’indomani delle esequie, innumerevoli cittadini, singoli e a gruppi, turisti e ospiti ufficiali, vi si sono recati in una sorta di pellegrinaggio.
L’eredità di Yasser Arafat – ha detto, nel febbraio 2005, il ministro francese degli affari esteri dell’epoca, Michel Barnier, in occasione di una visita alla Muqata – appartiene al popolo palestinese e alla storia. E gli israeliani? «Si cullano nell’illusione, se credono che i loro scopi potranno realizzarsi nel dopo Arafat», ha dichiarato il primo ministro palestinese Ahmad Qorei. Aggiungendo: «Verrà il giorno in cui rimpiangeranno Arafat».

note:
* Giornalista, Gerusalemme. Autore della biografia Arafat l’irriducibile, Ponte alle Grazie, 2004.
(1) Haaretz, Tel-Aviv, 9 settembre 2005. Il giorno prima, il New York Times attribuiva il decesso a una emorragia provocata da una malattia sconosciuta, ma sottolineava che, nella cartella clinica, nulla provava l’avvelenamento o l’aids.
(2) Hachette Littérature, Parigi, 2005.
(3) «Sindrome digerente iniziale insorta trenta giorni prima, che indicava una enterocolite; sindrome ematologica con grave Civd (coagulopatia intravascolare disseminata), emofagocitosi midollare isolata senza sindrome d’attivazione sistemica dei macrofagi; ittero colostatico; sindrome neurologica con stupor fluttuante, poi coma».
(4) Yediot Aharonot, Tel Aviv, 14 settembre 2004.
(5) Maariv, Tel Aviv, 4 novembre 2004.
(6) Haaretz, 9 settembre 2005.
(7) Haaretz, 9 settembre 2005.
(8) Insoddisfatto dell’operato della commissione nominata nel novembre 2004, il consiglio legislativo palestinese ha creato, il 5 ottobre scorso, una nuova commissione di inchiesta incaricata di far luce in tempi brevi sulle cause della morte dello shahid.
(Traduzione di R. I.)

APARTHEID ISRAELIANA

gennaio 8, 2007

Indeed there is Apartheid in Israel

A new order issued by the GOC Central command bans the conveyance of Palestinians in Israeli vehicles. Such a blatant violation of the right to travel joins the long list of humans rights violations carried out by Israel in the [Occupied] Territories.

By Shulamit Aloni

5 Jan 2006 | Ynet (Hebrew)

the-olive-tree-by-israel-shammout.jpgJewish self-righteousness is taken for granted among ourselves to such an extent that we fail to see what’s right in front of our eyes. It’s simply inconceivable that the ultimate victims, the Jews, can carry out evil deeds. Nevertheless, the state of Israel practises its own, quite violent, form of Apartheid with the native Palestinian population.

The US Jewish Establishment’s onslaught on former President Jimmy Carter is based on him daring to tell the truth which is known to all: through its army, the government of Israel practises a brutal form of Apartheid in the territory it occupies. Its army has turned every Palestinian village and town into a fenced-in, or blocked-in, detention camp. All this is done in order to keep an eye on the population’s movements and to make its life difficult. Israel even imposes a total curfew whenever the settlers, who have illegally usurped the Palestinians’ land, celebrate their holidays or conduct their parades.

If that were not enough, the generals commanding the region frequently issue further orders, regulations, instructions and rules (let us not forget: they are the lords of the land). By now they have requisitioned further lands for the purpose of constructing “Jewish only” roads. Wonderful roads, wide roads, well-paved roads, brightly lit at night – all that on stolen land. When a Palestinian drives on such a road, his vehicle is confiscated and he is sent on his way.

On one occasion I witnessed such an encounter between a driver and a soldier who was taking down the details before confiscating the vehicle and sending its owner away. “Why?” I asked the soldier. “It’s an order – this is a Jews-only road”, he replied. I inquired as to where was the sign indicating this fact and instructing [other] drivers not to use it. His answer was nothing short of amazing. “It is his responsibility to know it, and besides, what do you want us to do, put up a sign here and let some antisemitic reporter or journalist take a photo so he that can show the world that Apartheid exists here?”

Indeed Apartheid does exist here. And our army is not “the most moral army in the world” as we are told by its commanders. Sufficient to mention that every town and every village has turned into a detention centre and that every entry and every exit has been closed, cutting it off from arterial traffic. If it were not enough that Palestinians are not allowed to travel on the roads paved ‘for Jews only’, on their land, the current GOC found it necessary to land an additional blow on the natives in their own land with an “ingenious proposal”.

Humanitarian activists cannot transport Palestinians either

Major-General Naveh, renowned for his superior patriotism, has issued a new order. Coming into effect on 19 January, it prohibits the conveyance of Palestinians without a permit. The order determines that Israelis are not allowed to transport Palestinians in an Israeli vehicle (one registered in Israel regardless of what kind of numberplate it carries) unless they have received explicit permission to do so. The permit relates to both the driver and the Palestinian passenger. Of course none of this applies to those whose labour serves the settlers. They and their employers will naturally receive the required permits so they can continue to serve the lords of the land, the settlers.

Did man of peace President Carter truly err in concluding that Israel is creating Apartheid? Did he exaggerate? Don’t the US Jewish community leaders recognise the International Convention on the Elimination of all Forms of Racial Discrimination of 7 March 1966, to which Israel is a signatory? Are the US Jews who launched the loud and abusive campaign against Carter for supposedly maligning Israel’s character and its democratic and humanist nature unfamiliar with the International Convention on the Suppression and Punishment of the Crime of Apartheid of 30 November 1973? Apartheid is defined therein as an international crime that among other things includes using different legal instruments to rule over different racial groups, thus depriving people of their human rights. Isn’t freedom of travel one of these rights?

In the past, the US Jewish community leaders were quite familiar with the meaning of those conventions. For some reason, however, they are convinced that Israel is allowed to contravene them. It’s OK to kill civilians, women and children, old people and parents with their children, deliberately or otherwise without accepting any responsibility. It’s permissible to rob people of their lands, destroy their crops, and cage them up like animals in the zoo. From now on, Israelis and International humanitarian organisations’ volunteers are prohibited from assisting a woman in labour by taking her to the hospital. [Israeli human rights group] Yesh Din volunteers cannot take a robbed and beaten-up Palestinian to the police station to lodge a complaint. (Police stations are located at the heart of the settlements.) Is there anyone who believes that this is not Apartheid?

Jimmy Carter does not need me to defend his reputation that has been sullied by Israelophile community officials. The trouble is that their love of Israel distorts their judgment and blinds them from seeing what’s in front of them. Israel is an occupying power that for 40 years has been oppressing an indigenous people, which is entitled to a sovereign and independent existence while living in peace with us. We should remember that we too used very violent terror against foreign rule because we wanted our own state. And the list of victims of terror is quite long and extensive.

We do limit ourselves to denying the [Palestinian] people human rights. We not only rob of them of their freedom, land and water. We apply collective punishment to millions of people and even, in revenge-driven frenzy, destroy the electricity supply for one and half million civilians. Let them “sit in the darkness” and “starve”.

Employees cannot be paid their wages because Israel is holding 500 million shekels that belong to the Palestinians. And after all that we remain “pure as the driven snow”. There are no moral blemishes on our actions. There is no racial separation. There is no Apartheid. It’s an invention of the enemies of Israel. Hooray for our brothers and sisters in the US! Your devotion is very much appreciated. You have truly removed a nasty stain from us. Now there can be an extra spring in our step as we confidently abuse the Palestinian population, using the “most moral army in the world”.